1) Iniziamo dalle base: cos’è la psicologia del marketing e qual è il percorso da fare per lavorare in quest’area?
« La psicologia del marketing è quel campo di studi e applicazioni professionali che si occupa di analizzare il comportamento dei consumatori e i meccanismi alla base delle nostre decisioni di acquisto e di scelta. È un ambito vasto e abbraccia varie prospettive teoriche e più discipline, come il neuromarketing, la persuasione e le teorie dell’influenza sociale, il nudge marketing … domini diversi, che hanno in comune l’applicazione dell’analisi psicologica alle strategie di marketing. Non esiste un unico percorso possibile per lavorare in questo campo, essendo appunto molto vasto…una strada che mi sento di suggerire prevede una prima formazione sui temi della psicologia generale, cognitiva e sociale, e una successiva specializzazione in psicologia del marketing ».
2) Quali sono, secondo lei, i prossimi passi da compiere per migliorare il modo di fare psicologia del marketing?
« Penso che l’opportunità stia nell’intersezione di questo campo di studi con altri settori, come la tecnologia. Ad esempio, nel digital marketing si parla sempre più di personalizzazione, ma non si tiene conto della psicologia. Viceversa, la psicologia del marketing tende a trascurare le differenze individuali per concentrarsi sui meccanismi di funzionamento della “mente umana”, un po’ come se fosse un’unica entità. A mio avviso, l’unione di questi due mondi diventa l’opportunità per entrambi di fare un grande passo in avanti ».
3) E’ cambiato il modo di fare marketing e pubblicità durante l’emergenza Covid – 19? Se sì, come?
« Certamente sì, seppure con modalità e sensibilità diverse. E’ stato fondamentale per i brands dimostrare vicinanza, sostegno ed empatia nei confronti delle persone e della società. E’ stato necessario porsi non come protagonisti ma come “partner”, mettendosi al servizio delle persone in un momento delicato e difficile – ciascuna realtà, evidentemente, in maniera coerente con il proprio ruolo sociale ».
4) Pensa che il nostro rapporto con i beni di prima necessità si sia modificato durante questo periodo di crisi?
« Penso di sì. Abbiamo sentito parlare di revenge spending come possibile fenomeno previsto alla fine di questo periodo, memori anche di quanto accaduto nel 2003 in Cina: quando l’epidemia di SARS finì, si cominciò a spendere molto più di prima. Se n’è parlato soprattutto quando, in uno dei primi giorni dopo la riapertura, la boutique di Hermès di Guangzhou ha fatturato 2.7 milioni di dollari, mi pare. Ma credo che nel nostro contesto attuale ci siano alcuni ordini di problemi riguardanti il revenge spending. Primo fra tutti, una sorta di “risveglio delle coscienze” dei consumatori, specie i più giovani: sullo sfondo di un’economia in fase di rallentamento e di una crescente sensibilità sociale per la tutela dell’ambiente, potrebbero dimostrarsi meno inclini a spendere per beni inessenziali e più propensi, invece, a optare per consumi consapevoli e sostenibili ».

5) Smartworking: quali sono le ripercussioni positive e negative, anche a livello psicologico, del lavoro da casa?
« Farei prima una distinzione tra smartworking e remote working. Lo smartworking è un concetto più ampio: riguarda il tipo di rapporto e di mindset con cui l’organizzazione si pone nei confronti dei suoi dipendenti. Inoltre, implica una flessibilità legata non solo agli spazi e ai luoghi di lavoro, ma anche ai tempi: ad esempio, un approccio al raggiungimento degli obiettivi anziché alle canoniche 8 ore prefissate nell’arco della giornata. Detto questo, il lavoro da remoto per sua natura si presta a essere anche un lavoro più “smart” ».
« Per quanto riguarda gli effetti che ha sulle persone, sia in positivo sia in negativo, penso siano molto variabili da individuo a individuo. Cercando di generalizzare, in primis mi sento di dire che molti stanno riscontrando una maggiore efficienza del lavoro: non solo vengono meno i tempi di commuting, ma si riducono anche tutti quei momenti di attesa, di ice-braking e di “improduttività” – in senso stretto ».
« Tutti momenti che sono però fonte di socializzazione e che contribuiscono a creare empatia tra le persone. Vengono a mancare la stretta di mano, la pacca sulla spalla al collega, la pausa caffè… Questo è vero, e ne sentiamo tutti la mancanza. Ciò non significa però che nel remote working non ci siano occasioni – sebbene diverse – di vicinanza e familiarità tra colleghi e collaboratori. Pensiamo solo al fatto che con i sistemi di videoconferenza stiamo letteralmente entrando “in casa” delle persone: è ormai frequente nelle nostre call sentire voci di bambini, sentire gatti miagolare, o vedere i nostri colleghi vestiti in “tenuta da casa” ».
6) Oltre a modificare le nostre abitudini ora, pensa che lo smartworking avrà un impatto sul nostro modo di lavorare anche quando l’emergenza sarà finita?
« Penso che anche dopo l’emergenza ci porteremo comunque dietro quelle abitudini e quelle pratiche che in questo periodo hanno funzionato. Tra queste anche lo smartworking, che secondo me avrà favorito soprattutto un’evoluzione del mindset, del tipo di rapporto delle organizzazioni verso i dipendenti e viceversa, e anche del modo di esercitare la leadership. Per qualcuno si sarà trattato di un cambiamento, per qualcun altro invece di un rafforzamento di un approccio che era presente anche prima ».
Per approfondire l’argomento, leggi il libro Neuromarketing: La guida definitiva per capire i processi mentali e decisionali del consumatore ed aumentare le vendite di Luca Torres
2 Commenti
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Rossana
Articolo molto interessante. Anche quando sarà finita l’emergenza coronavirus, il lavoro sarà sempre più smart
thesciencelab
Grazie!