In questo periodo di quarantena avremo la possibilità di rimanere soli, ma cosa accade al nostro cervello in queste situazioni?
Il ruolo della neurochinina B
Quando si è isolati o quando ci si sente soli è risaputo che, spesso, tristezza e nervosismo accompagnano le nostre giornate. Paura e aggressività sono poi una diretta conseguenza. I ricercatori del California Institute of Technology (Caltech) hanno osservato che i topi, in seguito ad un isolamento di due settimane, vanno incontro ad una upregolazione del neuropeptide Tachinina2/NeurochinaB. Questo significa che le due proteine sono maggiormente prodotte nel cervello, determinando cambiamenti comportamentali. Inoltre, per conferma, è stata bloccata l’azione della Neurochinina B e questo ha fatto sì che i comportamenti guidati da paura e aggressività scomparissero. Per comprendere dove la proteina agisse, è stata bloccata la sua azione in due aree cerebrali: amigdala e ippocampo. Ciò ha permesso di osservare che la prima area cerebrale è implicata nel controllo della paura, mentre la seconda nel controllo dell’aggressività.
L’ormone dello stress: Cortisolo
Qualcosa di molto simile accade anche nell’ uomo, aprendo la strada a possibili farmaci per la cura di malattia psichiatriche dove l’isolamento sociale fa da padrone. Tuttavia, l’essere umano è complesso e lo si conferma anche in questa situazione. Una delle difficoltà maggiori è cercare di oggettivare le sensazioni di solitudini, perché non è sufficiente chiudere qualcuno in una stanza per farlo sentire solo. Infatti, l’isolamento sociale non è un sinonimo di solitudine. Gli studiosi hanno preso in esame l’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene, che è uno dei più importanti attori nella risposta allo stress, e hanno osservato come i livelli di cortisolo siano più alti nei soggetti che riferiscono una maggior sensazione di solitudine. L’aumento del cortisolo ha importanti ripercussioni negative sul metabolismo, sul sistema cardiovascolare, sul sistema nervoso e sul sistema immunitario.
Isolamento o solitudine?
E’ bene tenere a mente, però, che la solitudine non è uguale per tutti. Infatti, i cambiamenti comportamentali e le alterazioni neuroendocrine che regolano le nostre emozioni non sono correlati alla percentuale di tempo passato da soli, ma alla sensazione di essere da soli. Questo significa che quello che conta è come noi ci sentiamo: possiamo essere a New York e sentirci ugualmente soli. La faccenda è ancora più complessa perché vi è la possibilità che si instauri un loop negativo, dove tutto quello che osserviamo ci ricorda che siamo soli. Studi di risonanza magnetica funzionale hanno mostrato come la corteccia visiva sia più attiva nei soggetti che riferiscono una maggiore sensazione di solitudine quando osservano immagini di isolamento sociale Questo vuol dire che il nostro cervello si abitua a pensare negativo e vede tutto triste, alimentando la sensazione spiacevole associata alla solitudine. Sta a noi fermare questa spirale negativa.
Concludiamo però con una nota positiva. I ricercatori del MIT hanno scoperto che una parte del cervello, il nucleo dorsale del rafe, è fondamentale per rendere i soggetti isolati più socievoli una volta terminato l’isolamento. Quindi, finita la quarantena, ci aspetta una grande festa in cui tutti avranno nuovamente voglia di incontrarsi. Chissà, magari qualche nuovo amore sboccerà. Che sia merito del nucleo dorsale del rafe o del vostro sex appeal non si può sapere.
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