I proverbi sono strumenti utili per dare parola a circostanze in cui può essere difficile immedesimarsi nel caso in cui non se ne è protagonista. Il percorso di uno scienziato è una di queste ed il caso di Watson e Crick ne è un esempio peculiare.
L’ispirazione
James Dewey Watson nasce a Chicago ben 90 anni fa in una famiglia scettica sulla religione. Eredita dal padre la passione per l’ornitologia tant’è che inizialmente si laurea all’università di Chicago in zoologia, ma dopo aver conosciuto Darwin e i suoi studi sull’evoluzione e Schrodinger con il suo libro “What is life?”, decide che il suo dottorato doveva essere in genetica. Da qui l’illuminazione del biologo statunitense poiché Schrodinger definiva ” l’essenza della vita racchiusa nell’informazione”, quindi nei cromosomi. Questa lettura infatti, lo portò a riflettere su un concetto mai contemplato prima ovvero quello molecolare.
La convinzione che il concetto dell’informazione genetica risiedesse in una molecola non se la scrollò di dosso neanche durante il suo dottorato di ricerca svolto in Indiana. Qui ammirò il lavoro svolto dal gruppo di Salvador Luria e Max Delbruck chiamato “Phage group”. Portando avanti questa idea, iniziarono i primi screditamenti sull’ipotesi del DNA che veniva definito come un “tetranucleotide di supporto alle proteine”.
La svolta con Wilkins
Conseguito il dottorato nel 1950 si trasferì in Europa per continuare il lavoro ed una tappa fondamentale fu proprio in Italia e precisamente a Napoli.
Partecipò infatti ad un meeting nella stazione zoologica di Napoli nel 1951, entrando in contatto con Maurice Wilkins, un biofisico che nel dopoguerra si interessó al concetto di DNA ipotizzato a partire da immagini di diffrazione a raggi X. L’ obiettivo di Watson era quindi risolvere la struttura tridimensione di questa molecola. Fu proprio attraverso Luria che ottenne un lavoro post-dottorato all’università di Cambridge dove si utilizzava, in quel periodo, la cristallografia a raggi X. Nel laboratorio di Cavendish del dipartimento di fisica dell’università incontrò Francis Crick con il quale instaurò un’ armonia intellettuale attraverso la quale risolsero la struttura tridimensionale di questa molecola.
Da qui la pubblicazione su Nature nel 1953 e il premio Nobel nel 1962.
Un riconoscimento insufficiente
Fin qui potrebbe sembrare una storia a lieto fine, ma non si deve dimenticare il contributo di Rosalind Franklin, al quale fu dato poco credito.La scienziata inglese infatti ebbe un destino infausto, morì di tumore all’ovaio nel 1958 e questo non le permise di avvalorare le sue scoperte ancor più predittive delle tesi di Watson. In effetti i due premi nobel citarono solo i lavori di Rosalind nella pubblicazione su Nature, senza darle il vero merito.
A metterci lo zampino fu sia il contesto storico, che Wilkins in persona il quale instaurò verso di lei un’invidia, dettata anche da maschilismo, rispetto alle sue capacità e la sua giovane età. Difatti Watson nel libro “Doppia Elica” racconta il percorso tortuoso che la ricercatrice affrontò nel mondo della ricerca inglese, all’epoca fortemente ostile verso il gentil sesso.
2 Commenti
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giovanni pieri
bene il riconoscimento a Rosalind Franklin.
A quanto pare il lavoro lo fece tutto lei.
ma a raccontare in giro i risultatai ci andavano i maschietti.
Ilaria
Sì, Watson ha unito i pezzi di un puzzle già pronto!